Università Cattolica del Sacro Cuore
SSIS - Scuola di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario
Indirizzo fisico - informatico - matematico; classe 49A 

Laboratorio di elettromagnetismo ed ottica
Prof.sa Mara Bettini

 Elaborato individuale di Sofia Sabatti
matr. 2806683

 

 

I problemi nell'insegnamento della fisica

 

 Premessa

 Una osservazione è dovuta sull'ambiguità del titolo di questo elaborato: se fossi un'altra persona, forse potrei permettermi un trattato sull'uso dei problemi per la didattica della fisica, sulla loro valenza, la loro portata, il loro significato; ma, nella mia attuale situazione, sarebbe più onesto limitarmi a fare un elenco di quelli che sono i miei problemi quand'anche solo mi penso come insegnante di fisica!
Questo per dire che non mi sento affatto preparata a un tale ruolo; anche le riflessioni che ho fatto, stimolata da quanto detto nei corsi laboratoriali della SSIS tenuti da alcuni docenti di scuola superiore, mi hanno più che altro condotto a capire quanti limiti ci sono nella mia formazione fisica; si tratta, insomma, non solo di limiti nel mio modo di agire, che possano cambiare grazie al bagaglio culturale che già ho, ma di limiti strutturali di questo stesso bagaglio che dovrò in qualche modo colmare.
Con un po' di sarcasmo potrei dire che avrei sperato che la SSIS servisse a questo, ma in realtà sono già contenta del fatto che abbia precisato alcuni di questi limiti, vi abbia messo luce, mi abbia fornito materiali su cui riflettere e modi per attingere ad altre fonti.

Tanto per fare un esempio, potrei limitarmi a dire che, onestamente, io ho un'idea molto vaga di quelli che sono gli ordini di grandezza delle cose reali. Proprio pochi giorni fa mi è capitato di spiegare ad uno studente di ingegneria come vengono condotte le esplosioni in galleria (si era al di fuori del contesto scolastico; interruzione pubblicitaria: è mai stata a visitare la miniera Stese di Pezzaze, in Val Trompia?) e di trovarmi a parlare di detonatori "ad alta intensità" e "a bassa intensità". Ricordavo che quelli ad alta intensità avevano bisogno, per esplodere, di una corrente di 30 A, mentre che per quelli a bassa intensità ne bastava una di circa 1 A. Quando questo studente mi ha guardato sconvolto dicendo che non era possibile, io ho addirittura pensato che forse non si trattava di 30 A (30 è un numero piccolino...) ma di 300 A e questo era ancora più sconvolto, ovviamente. Al che mi ha detto che 30 A erano tantissimi, che ogni volta che lui aveva messo le mani su qualche circuito si parlava di mA al massimo, e così via. Io, scarsamente fiduciosa nella mia memoria e conscia che non avevo idea di che cosa fosse una corrente elevata e una piccolina, sono andata a riprendermi il manuale e... avevo ragione, ma poco importa. Fino ad allora non avevo mai apprezzato così tanto i detonatori ad alta intensità e gli esploditori necessari per produrre la corrente da erogargli, non avevo mai capito perché fossero ritenuti così sicuri. E, quel che è peggio da un punto di vista didattico, è che se avessi dovuto inventare dei problemi per i miei possibili studenti, non mi sarei certo preoccupata di porli davanti a correnti di 100 A...!

Concludendo: le osservazioni seguenti non sono una dichiarazione di quello che attualmente faccio a scuola (per inciso, tra l'altro, questo è solo il secondo anno che insegno e ho sempre fatto supplenze nella scuola media, se non per una settimana in un'IPSIA e per la partecipazione ad una sessione di esami di stato di un liceo scientifico con sperimentazione artistica); piuttosto vorrebbero essere una dichiarazione di intenti, per perseguire i quali sono conscia di avere molta strada da fare.

 

Bibliografia

La maggior parte delle riflessioni contenute in questa relazione, oltre che da quanto visto nel Laboratorio di elettromagnetismo ed ottica della SSIS, derivano dalla lettura di un articolo di Elio Fabri e Ugo Penco (Gli obiettivi del problema e i modi per raggiungerli, in La fisica nella scuola, XXVII, 4 supplemento, 1994), riportante la relazione da essi tenuta al VI Convegno Orlandini.

 Consultando il sito dell'A.I.F. ho potuto notare che sono stati pubblicati anche altri articoli sull'uso dei problemi nella didattica della fisica, ma non sono riuscita a recuperarli. Sarà questo uno dei miei primi impegni concreti[1].

 Un altro sito che mi è stato un tantino utile è quello di "Didattica della fisica" dell'ISPFP di Lugano, in cui si trova, tra altri proposti, proprio un corso di aggiornamento sul ruolo dei problemi nell'insegnamento della fisica, raggiungibile dalla seguente pagina web:
http://www.ispfp.ch/didattica-fisica/corsi_aggiornamento/default.html

 

Chiedersi il perché

Una prima osservazione che l'articolo di Elio Fabri e Ugo Penco presenta e che, del resto, è stata più e più volte sottolineata anche nel nostro laboratorio, è questa: le funzioni cui può essere adibito un problema nella didattica sono molteplici, non tutte scontate; esse devono essere chiare ed esplicite nella mente dell'insegnante che propone il problema.

A questo proposito, forse potrebbe davvero essere utile (almeno all'inizio della sua carriera) che un insegnante, oltre a risolvere prima per conto proprio tutti i problemi che propone ai ragazzi e a far risolvere a dei colleghi i problemi che inventa, si ponga (di fronte a ciascun problema) queste domande, o altre simili[2]:

·           Quali sono i prerequisiti che gli studenti devono disporre per poter risolvere un simile problema?

·           Quali conoscenze / competenze / attitudini dei tuoi studenti vuoi valutare con questo problema?

·           Quali attività cognitive sono richieste allo studente per risolvere il problema: ricorso a concetti memorizzati, pensiero creativo, pensiero logico, capacità di astrazione, capacità di sintesi, capacità di calcolo, eccetera.

·           Per quale motivo ritieni che la domanda sia particolarmente importante?

·           Per quale motivo ritieni che l'impostazione sia particolarmente importante?

·           Il problema serve a valutare solo conoscenze / competenze prettamente disciplinari? Oppure anche di altro tipo?

·           Se usi questo problema in una valutazione (o in un esame) quale pensi che sarebbe l'opinione di uno studente che ha sostenuto la valutazione / l'esame in merito a cosa è importante imparare nella tua materia? E se lo studente non riesce a risolvere il problema quale pensi che sarebbe la sua opinione in merito?

·           Quale pensi che sarebbe l'opinione di un fisico che legga il tuo problema? Quale immagine si farebbe del tuo modo d'insegnare?

·           Quale pensi che sarebbe l'opinione di una persona "qualunque" che legga il tuo problema? Quale immagine si farebbe del tuo modo d'insegnare? E quale della fisica?

·           Quale è l'immagine della fisica che il problema trasmette agli studenti?

Il fatto che quando si assegna un problema (o si dà una qualsiasi altra consegna) si debba sapere perché lo si fa e si debba riflettere anche sulle conseguenze, credo sia del tutto condivisibile. Non credo però che si possa poi proseguire facendo una classificazione netta dei problemi dicendo "i problemi che servono a questo sono fatti così... i problemi che servono a quello sono fatti cosà". Inoltre credo che ci debba puntare a comunicare ai ragazzi uno spirito con cui affrontare i problemi di fisica, che dovrebbe essere il medesimo sia davanti a problemi "standard" o "complessi", a problemi "chiusi" o "aperti", a problemi "qualitativi" o "quantitativi".
O almeno questa è la tesi che vorrei sostenere e che cercherò di motivare in questo elaborato.

 

Alcune precisazioni sui termini.

Ho già detto di non voler fare una classificazione dei problemi, bensì di voler trovare alcuni elementi di quello spirito necessario per affrontarli tutti. Nel fare ciò, però, utilizzerò alcune aggettivazioni comuni, delle quali mi sembra pertanto utile precisare il significato.

Problema standard
Si tratta di un problema applicativo, spesso chiamato esercizio, in cui sia evidente dall'inizio quale formula applicare e per risolvere il quale basti sostituire in tale formula ai vari parametri i dati numerici, per ottenere l'unico valore mancante; al massimo si tratta di impostare un sistema a più equazioni in più incognite, ma il principio non cambia.

Problema complesso
Si tratta di un problema in cui non è così evidente quale sia la formula da applicare; occorre, prima di procedere, analizzare la situazione e cercare di schematizzarla, di farla rientrare in uno dei quadri teorici studiati, di ricercare o di stimare i dati mancanti per poter procedere nella risoluzione numerica. In un problema di questo tipo, insomma, non si può decidere quale formula applicare in base ai dati o, ancora peggio, in base al titolo del paragrafo cui si riferisce!

Problema chiuso
Si tratta di un problema che descrive un'unica situazione, nota ai ragazzi, e che ammette un'unica soluzione (alla quale magari si possa arrivare in modi diversi, ma che non dipenda da variabili non precisate nel testo).

Problema aperto
Si tratta di un problema che descrive una situazione non del tutto conosciuta agli studenti, o non ben precisata, non definita. Con ciò non si intende che il problema sia di fatto un trabocchetto, un indovinello, o che presenti una situazione confusa o incomprensibile; piuttosto l'idea è che quanto precisato lascia spazio a diverse possibilità, a seconda che si verifichino determinate condizioni o determinate altre; saranno i ragazzi a dover capire quali condizioni vanno poste, quali domande ulteriori ci si deve porre per poter concludere ciò che il problema chiede esplicitamente.

Problema qualitativo
Si tratta di un problema che non fornisce dati numerici, ma semplicemente descrive una situazione da un punto di vista qualitativo, o che non si aspetta un risultato numerico, ma le risposte ad alcune domande che spingano a dare una descrizione più precisa di quanto proposto.

Problema quantitativo
Si tratta di un problema che fornisce dati numerici e che richiede un risultato numerico. 

 

Lo spirito

Traduco dalla prefazione del citato testo del Rogers[3]:
"I problemi [...] richiedono di mettere in discussione, di ragionare e di raffinare le proprie conoscenze. In fisica c'è molto ragionamento e molta messa in discussione. Per capire come la conoscenza empirica sia compatibile con la teoria e come si possano estrarre nuovi risultati, c'è bisogno di pensare e ragionare da soli. Ovviamente sarebbe più semplice e più veloce, sia per gli studenti che per gli insegnanti, se un testo fornisse tutti i risultati ed esplicitasse tutti i ragionamenti; ma è difficile ricordarsi a lungo ciò che viene insegnato in questo modo; ed è ancora più difficile ottenere da un insegnamento di quel tipo una comprensione della scienza che non sia, quantomeno, grossolana. [...] I problemi richiedono agli studenti di pensare ed è per questo che costituiscono una parte importante dell'insegnamento. [...] Alcuni problemi presentano questioni generali la cui discussione può far avanzare la comprensione. Queste questioni generali richiedono che si esprima un'opinione oltre a condurre un ragionamento; e ovviamente non hanno un'unica risposta completamente giusta. Riflettere attorno a queste questioni, fare la propria scelta, chiarirsi la propria opinione e mettere in discussione le varie altre possibili è parte di una buona educazione alla scienza."

Credo che i verbi utilizzati dal Rogers mettano in evidenza alcune importanti funzioni dei problemi; essi aiutano a mettere in discussione, ragionare, raffinare la conoscenza, capire, pensare, comprendere, riflettere, scegliere... è in quest'ottica che voglio mettermi; ciò che mi chiedo è: come vanno affrontati i problemi perché davvero ci aiutino a rendere capaci i ragazzi di queste cose?

Occorre, innanzitutto, abituare i ragazzi a partire dall'analisi della situazione. L'idea non è tanto quella di fare un elenco dei dati forniti nel testo, ma quella di capire dove si è, che cosa sta succedendo, quali elementi influiscono sui corpi che si stanno considerando. E questo indipendentemente dal fatto che poi il problema sia standard o complesso... Anzi: che cosa dovrebbe essere a far decidere al ragazzo che il problema è standard se non il fatto di aver condotto una approfondita analisi della situazione ed essersi accorto che non c'è nulla di preoccupante e che il testo fornisce tutti i dati necessari ad una semplice risoluzione del problema?
Un'analisi della situazione va condotta, a mio parere, non solo per quei problemi considerati qualitativi, ma per tutti, anche per quelli dove i dati numerici sono lì che mi guardano, bell'e pronti per essere inseriti nella formula che ho appena studiato. Non voglio dire che il saper operare le dovute sostituzioni nelle formule, il saper valutare le soluzioni delle equazioni, il saper passare da un'unità di misura all'altra siano cose banali o scontate, ma non credo che siano "la fisica" dei problemi, quanto piuttosto riguardino aspetti logico-linguistici. Lungi da me sostenere che questi aspetti non siano importanti (sono pur sempre una matematica...), ma non sono tipici dei problemi di fisica; anche un problema di geometria, o un problema di matematica finanziaria, o di chissà che altro mi permetterebbero di lavorare su questi aspetti.

Dall'analisi della situazione occorre poi passare alla sua schematizzazione, che in genere richiede anche delle approssimazioni. Spesso si dà per scontato questo passaggio (il quadro teorico in cui il problema è risolvibile, si sottintende, è quello esposto nel paragrafo appena affrontato), cosa che mette i ragazzi in estrema difficoltà quando si trovano di fronte a problemi complessi, in cui questa scontatezza scompare. Più utile sarebbe farlo tutte le volte, anche per i problemi così detti standard, in modo che si sottolineino quali sono gli elementi che mi permettono di adottare un certo procedimento, di fare certe semplificazioni o approssimazioni.
Ancora, è il cercare di schematizzare la situazione che mi permette di capire se sono di fronte ad un problema aperto o chiuso; non avrebbe senso stabilirlo a priori. è nel cercare di inquadrare il problema all'interno della teoria nota che posso accorgermi se esso ci rientra o meno, non prima.
Così, non è questione di problemi quantitativi o qualitativi. Anzi... Ricordo di aver profondamente odiato, in tutti i corsi di fisica a cui ho assistito all'università, gli esercitatori che ad un certo punto facevano scomparire pezzi di equazioni, dicendo che tanto erano trascurabili... Mi sono sempre chiesta come lo si potesse stabilire a priori. Evidentemente, non avevo una minima idea degli ordini di grandezza delle cose che stavo trattando. Con questo voglio dire che anche quando un problema fosse assegnato senza alcuni dati numerici o in modo completamente qualitativo, non si potrebbe schematizzarlo senza aver fatto alcune considerazioni sugli ordini di grandezza, senza aver fatto alcuni conti, o almeno senza aver fatto alcune ipotesi sui valori numerici delle grandezze in gioco, o comunque senza distinguere situazioni diverse a seconda dei valori numerici da esse assunti.
Cerco di spiegarmi con qualche esempio. Se un problema mi parla di un condensatore piano, non posso schematizzare la situazione nell'ambito del campo elettrico uniforme se non ho riflettuto sulle dimensioni delle piastre rispetto alla loro distanza, o senza aver fatto alcune ipotesi su tali dimensioni. O se un problema mi parla di un corpo sul quale agiscono delle forze elettrostatiche, non posso fingere che esso non sia immerso anche nel campo gravitazionale (ad esempio) terrestre; potrò però semplificare l'equazione del moto se sarò stata in grado di dire che l'ordine di grandezza di tale forza rispetto a quella elettrica è piccolissimo, e per far ciò devo avere un'idea (o formulare delle ipotesi) che sia quantitativa.
Anche nei problemi qualitativi, insomma, alcuni dati numerici possono essere essenziali; se sto parlando di un elettrone, anche se il problema è qualitativo non posso non sapere che è molto più leggero di un protone ma che ha la stessa carica. E i ragazzi devono essere abituati a non far finta di non sapere delle cose solo perché non sono inserite tra i dati dei problemi.
Al contrario, devo anche educare i ragazzi ad accorgersi se un problema quantitativo fornisce loro dei dati irreali, non compatibili con l'esperienza o con il quadro teorico che l'autore del problema aveva in mente. E questo posso farlo solo se ogni volta che ci si pone di fronte ad un problema si cerca di fare un'approssimazione degli ordini di grandezza delle grandezze in gioco.

A questo punto credo che il problema sia già risolto. Si tratterà di fare qualche conto (numerico o letterale) e di verificare che le soluzioni ottenute abbiano un senso, ma se l'analisi iniziale è stata condotta bene ciò non dovrebbe costituire una grossa difficoltà.

C'è però un'ulteriore fase che, secondo me, dovrebbe concludere un po' tutti i problemi che si fanno, rendendoli tutti dei problemi aperti, come del resto sono i problemi reali. Si tratta di porre ai ragazzi domande del tipo: "che cosa sarebbe successo se al posto di questo valore ci fosse stato fornito quest'altro?" oppure "che cosa succederebbe se modificassimo la velocità iniziale di quest'elettrone? e se ne modificassimo solo la direzione? o solo il verso?" oppure "come avrebbero dovuto essere i dati per ottenere quest'altra soluzione?" oppure ancora domande che modifichino completamente la situazione, la rendano non più schematizzabile all'interno del quadro scelto e aprano la strada allo studio di altri fenomeni, sia da un punto di vista sperimentale che teorico.

 

[1] Gli articoli cui mi riferisco sono:
Bosman, Il ruolo del problema nell'insegnamento della fisica, in LFNS vol. 16, 1983, n. 3 p. 146
Fiandri, Considerazioni sui problemi di fisica, in LFNS vol. 3, 1970, n. 1 p. 14.

[2] Queste domande sono tratte dal sito "Didattica della fisica" dell'ISPFP di Lugano, e costituiscono una rielaborazione delle idee formulate da Eric Rogers nei sui famosi "shredders" (workshop tenuti sul modo di impostare i problemi di fisica negli anni '70). Questo è un autore che mi è venuta voglia di avvicinare: è citato anche nell'articolo di Fabri e Penco, in particolare come autore di Teaching Physics for the Inquiring Mind, Princeton, 1960, un testo che ho consultato e che mi proverò a leggere per intero.

[3] Eric M. Rogers, Teaching Physics for the Inquiring Mind. The methods, nature, and philosophy of physical science, Princeton, 1960